Nell’ambito della III edizione di Eco-Efficiency Biennial, che
si terrà a Torino presso il Centro Congressi del Lingotto dal 18 al 21 maggio 2005, sono
stati organizzati eventi collaterali per divulgare le tematiche ambientali e promuovere
direttamente al cittadino i temi dell’eco - efficienza. | LE RICERCHE DI SPACE
ARTE ECO-EFFICIENTE
L'eco-efficienza, il risparmio energetico e la
progettazione bioclimatica non sono slegati da concetti come arte e qualità architettonica; al contrario le due sfere d'interesse hanno in
realtà fondamentali punti di contatto, poichè entrambi sono mezzi di
espressione della crisi che caratterizza il nostro tempo.
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L'Arte Povera, in particolare predica la povertà non solo come valore
estetico, ma soprattutto come valore morale che si oppone alla logica
del consumo. E' appunto "un'arte eco - efficiente" che trova nel rispetto dell'ambiente e nel risparmio energetico i suoi punti di forza |
Tra quotidiano ed effimero. La carta per Ivano Vitali
- Intervista di Federica Lessi
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- Gomitoli rossi, rosa, gialli e blu. Un paio di ferri da calza ed ecco
golf, gilet e abitini prendere forma da quel filo ritorto che avvolge parole e immagini.
Di carta. Vedere Ivano Vitali mentre lavora a maglia nel suo studio di Firenze è
un’immagine di serenità. Ricorda la vita di campagna e la pratica paziente del
costruire giorno per giorno. La natura, le tradizioni, il lavoro di una quotidianità
ancora “umana”. Su questi elementi, dalla provincia ferrarese dove cresce fino
alle colline fiorentine che vedranno la maturazione di un suo linguaggio autonomo, si basa
ancora l’arte di Vitali. Attratto dall’energia incessante che anima la vita
cosmica, che trasforma la materia riportandola continuamente a nuova vita. Questa passione
per l’universo mutante dei materiali, unita all’umiltà e al rispetto del mondo
naturale, ha determinato le sue scelte fin dagli anni Settanta, decisivi per quella
costante frequentazione dei materiali poveri - tra cui la carta, che diventerà il
prediletto – che, con la pratica del riuso e la gestualità come segno nello spazio,
legata alla performance, è diventata tipica del suo fare artistico. Oggi, di fronte ad
uno dei suoi gilet o dei seducenti tubini tessuti a telaio con un filo di carta di
giornale, non si può prescindere da quell’amore per la carta nato tanti anni fa.
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- Come inizia questo feeling?
- Il feeling inizia per gioco da ragazzo, ma prende corpo dal 1974 al
‘79 quando abitavo in una vecchia colonica sulle colline dell'Impruneta. Un periodo
ricco di installazioni effimere. Per i miei studi e le azioni nei campi utilizzavo
materiale povero o di scarto (giornali, penne, tappi, gusci d’uova). I miei
interventi erano di breve durata: nella stessa giornata installavo, documentavo con la
macchina fotografica e smontavo. I temi preferiti erano l'ecologia, i lavori nei campi e
quello domestico. In quel periodo utilizzai la carta di giornale per ottenere delle palle:
strappavo i quotidiani, li facevo macerare, poi li impastavo, li modellavo e facevo
essiccare al sole. Un inverno dovetti usare le numerose palle in sostituzione della legna.
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- La scelta del quotidiano è stata dettata più dalle
possibilità espressive del materiale o dalle implicazioni del messaggio e dalla sua
funzione sociale?
- Entrambi gli aspetti mi hanno
affascinato, ma forse quello che cronologicamente precede è il secondo: strappare i
quotidiani per distruggerli e poi recuperarli, ripartendo in modo creativo, viene dalla
mia esperienza di studente negli anni della contestazione, e dai successivi anni di
precariato come insegnante fino al 1977. Col tempo il mio interesse per la carta è
aumentato e oggi alla tematica ecologica, si aggiunge l'attenzione per la materia fino
alla sua trasformazione in filo e in manufatti.
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- Lo strappo dei giornali
durante le prime performance coincise con una pratica del gesto dal significato preciso.
- L'azione partì – allora come oggi - dallo strappo dei
quotidiani in tante strisce che vengono poi lanciate per aria e con il loro movimento
creano combinazioni di segni grafici, forme e giochi d'ombre. Una nuova
"scrittura". Strappare i quotidiani e lanciarli per aria è un motivo ricorrente
in molte mie performance, come se con quel gesto volessi evidenziare la nascita del mio
linguaggio espressivo, che storicamente si manifesta per la prima volta con la performance
"Grafica nell'aria" del 1978.
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- Da allora, e specie dal 1996 ad oggi, le performance hanno
assunto caratteri più esplicitamente sociali e civili, come quella per gli indiani,
“Lavoro un sacco”, “Brains”.
- La serie di performance “In onore degli Indiani
d’America” è nata in un periodo in cui avevo scoperto la musica minimalista di
Philip Glass; questo incontro mi suggerì delle performance dove l’elemento musicale
aveva un ruolo importante e mi consentiva di sposare il suono, la voce, la gestualità con
l’anima di questa minoranza dalla spiritualità ricchissima che ho tentato di
esplorare con la mia ricerca artistica. Certo, se si pensa come sono finiti gli Indiani,
la performance ha anche il senso di una denuncia sociale… Invece la serie di “Lavoro un sacco” mi
ha permesso di esplorare il rapporto tra carta e vento, un elemento della natura che ha
sempre esercitato un grande fascino su di me: nel 1978 feci i primi interventi con
sacchetti di plastica che si gonfiavano col vento. Ho coinvolto in questa esplorazione
tantissime persone in molte piazze d’Italia, per
le quali ho gonfiato a braccia i miei sacchi ed ho consentito loro di giocare; anche i
grandi si sono divertiti quasi come i bambini, ad entrare dentro ai sacchi, a starci
dentro quasi come dentro un utero, in compagnia ed in allegria. Anche “Brains”,
in cui mi avvolgo un filo di carta attorno alla testa come un gomitolo è un gioco, ma
più serioso.
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- In cosa consiste questo
atteggiamento ecologico? Si può definire tale l’arte di Ivano Vitali?
- Non dimentico mai le mie
origini: sono nato nelle Valli di Campotto, una zona paludosa della bassa ferrarese, che
mi ha offerto un ambiente saturo di bellezze
naturali, ma che mi ha anche richiesto l’accettazione dei rigori delle stagioni
(nebbia, afosità, umidità ...). Da diversi anni questa zona è parte del Parco del Delta
Po. Credo di avere integrato l'atteggiamento ecologico nel mio stile di vita e quindi
anche nel mio modo di fare arte.
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- Anche il riuso della carta
unisce un’attitudine ecologista ad una pratica artistica usata dalle avanguardie in
poi.
- Per me la carta è un collegamento con la natura, il legno degli
alberi. Lavoro la carta come se lavorassi il legno. La carta è solo più duttile, più
malleabile. Nel lavorarla, la rispetto, lasciandola se stessa, senza l’aggiunta di
colla o colori. Al massimo aggiungo acqua quando ho bisogno di creare forme precise.
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- Macerare, pestare e
modellare, piegare, ritagliare, incollare, filare, tessere, sferruzzare. Le infinite
possibilità di trasformazione rendono la carta il materiale prediletto. Quanto conta il
processo?
- Lavorare la carta richiede passaggi e tempi obbligati. La carta
macerata ad esempio va fatta seccare bene perchè perda odori, peso e acquisti quel colore
che la fa sembrare pietraforte. Oppure per creare un gomitolo occorrono dalle 8 alle 12
ore a secondo del tipo di carta; per fare una giacca servono una decina di gomitoli, poi,
una volta creati i singoli pezzi, la maglia va assemblata con filo sottile di carta e ago.
Fare il filo mi prende a tal punto che molte volte mi ritrovo a farlo nelle situazioni
più disparate: in treno, al cinema, in bus. Mia moglie Maddalena dice che sono come un
ragno.
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- Le forme che nascono, siano panetti di cartapesta, collages,
sacchi e costumi d’aspetto quasi tribale, non sono da meno.
- Ho creato sacchi di quotidiani per realizzare installazioni alle
pareti o sul pavimento in occasione di mostre e nelle performance, libri d'artista in cui
i miei libri sono stati ricoperti con carta macerata ed
essiccati al sole, colorati riportando poi in copertina il titolo strappato
dal frontespizio. Sempre con la carta macerata ho realizzato installazioni con forme
primarie: cubi, parallelepipedi, sfere, ovali, questi ultimi utilizzati anche nella
realizzazione delle teste dei manichini. Nel primo periodo in cui facevo costumi, usavo le
strisce di carta senza lavorarle. L’impressione che davano era indubbiamente di
oggetti primitivi. Ma ho creato un’intera collezione di personaggi in questo modo.
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- L’ultima creazione, che
apre anche una strada completamente nuova e allo stesso tempo riunisce molte delle esperienze passate, è la
maglia con filo di giornale ritorto.
- Da giovane creavo segnalibri con strisce di carta ritorta come
cordicelle. Nel 2002 l’esigenza di realizzare i miei costumi non più con le sole
strisce di quotidiani, mi ha portato a riscoprire nella carta ritorta la possibilità di
collegare tra loro tante strisce di quotidiani per farne dei gomitoli da utilizzare con i
ferri da maglia e uncinetto, tecniche che ho acquisito da mia madre. A tessere ho imparato
durante alcuni workshops di tessitura nel mio laboratorio. All’inizio realizzavo
gonne e gilet perché più semplici, successivamente, acquisendo le tecniche necessarie
per fare le maniche, ho realizzato giacche e completi da sposa.
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- Che significato ha assunto
inserire queste creazioni nelle sfilate-performance?
- In molte performance mi sono vestito con abiti di carta, in altre li
ho fatti indossare al pubblico. Una cosa che ho notato è che per la loro particolarità e
per un modo schematico di vedere la realtà, gli abiti vengono sempre confusi con oggetti
di moda. Si pensa a particolari materiali, ma mai mi è capitato di incontrare persone che
hanno riconosciuto la carta dei quotidiani al primo impatto. Quasi tutti per sincerarsene
vogliono toccare. Con questi abiti sono andato al ristorante, a passeggio per le città, a
visitare musei e fiere. Quando gli abiti sono semplicemente in mostra, la domanda
ricorrente è: “Si possono indossare?” La risposta è “Si”. Gli abiti
si possono indossare, ma hanno bisogno di molte attenzioni: non si lavano, non si
smacchiano, non si stirano, non vanno esposti alla pioggia, al sole diretto e
all'umidità. Sono oggetti che, costruiti con carta povera, una volta finiti diventano
delicati e preziosi. Ancora di più se si pensa che per farli ho dovuto scegliere tra le
pagine dei quotidiani i singoli colori, tanto
più preziosi quanto più raramente usati. Le persone che hanno indossato gli abiti in
occasione delle sfilate o per realizzare i servizi fotografici hanno sempre percepito
l’unicità dell’esperienza. Le sfilate-performance sono sia un’occasione
per mostrare le mie creazioni, ma soprattutto per coinvolgere il pubblico che intervenendo
diventa protagonista nel ricevere e trasmettere sensazioni, sentimenti.
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- Tra costume, spazio e azione
sembra collocarsi anche l’esordio teatrale.
- L’invito a collaborare per la creazione di costumi al Teatro
della Pergola di Firenze per “Bambìniuccellini”, regia di Andrea Botto, è
stata un’esperienza molto bella, con momenti diversi. Quello della creazione di
costumi che, pur essendo di carta, sono stati ammessi eccezionalmente su un teatro. Per
fortuna l’effetto è stato apprezzato. L’altro momento è stato quello
espositivo nella Sala Oro: per esporre gli
abiti avevo appositamente realizzato dieci manichini "ecologici", utilizzando le
uova di precedenti performance per fare delle teste dechirichiane. Anche in questo caso,
pur non essendo né uno stilista né un costumista né uno scenografo molti habituè del
teatro hanno apprezzato le mie creazioni in modo lusinghiero.
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- E’ stato stimolante
affrontare il rapporto diretto con la parola nel testo di “Bambìnuccellini”?
- Più che con la parola, ho fatto i conti con i personaggi, che
avevano già una loro storia nel mondo dell’immagine… Li ho semplicemente
reinterpretati, realizzando con la carta gli oggetti simbolici che nella fantasia popolare
contraddistinguono le fate, i pirati: per Peter Pan ho realizzato un costume che lo
interpretava metà come uccello, metà come bimbo.
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- Dai panni colorati stesi
ironicamente ad Argenta trent’anni fa ai costumi di questi piccoli Peter Pan quanto
resta dell’“utopia colorata” di allora?
- In passato ho realizzato i miei interventi nell'ambiente per poi
distruggerli dopo averli documentati.
- Forse quella era la vera utopia, quella giovanile, che non ha un topos
neanche nel mondo dell’arte, né gallerie, né teatri, né mercati. Oggi la mia
utopia è in cerca di un topos dove poter mostrare e conservare questi abiti con il
loro carico di memoria, con la mia e l’altrui storia. La mia utopia oggi è che
questa memoria non rimanga solo mia.
Federica Lessi - Castiglioncello 2005
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